Un invito ad aprire gli occhi per ammirare, stupirsi, ma soprattutto per prendere coscienza della realtà e risvegliarsi dal sonno. È il grido di "Italia talìa", l'ultimo progetto musicale di Mario Incudine che, dopo aver affrontato il tema dell’immigrazione con “Anime migranti” e quello dell’Unità d’Italia con “Beddu Garibbardi”, è tornato con un nuovo progetto originale di tredici brani.
Il cantautore siciliano, portabandiera nel mondo del sound siculo e autore di musiche per teatro e cinema, ancora una volta si affida alla lingua siciliana (che in questo progetto lascia spazio anche a quella italiana) per rivolgersi al suo pubblico e raccontare – in un puzzle di luci e ombre – storie del nostro tempo. I suoni sono quelli sbocciati e miscelati nel bacino del Mediterraneo associati a batterie e chitarre elettriche che iscrivono il disco nella più contemporanea world music.
“Italia talìa” significa “Italia guarda”: come commenta lo scrittore e giornalista Carmelo Sardo nella nota introduttiva del cd: “La voce ora dolce ora incisiva di Mario Incudine ti ricorda le tragedie e i soprusi che hanno fatto la storia di questo Paese che troppo spesso si è voltato dall’altra parte. Sembra a tratti un grido di denuncia e di rabbia sospinto dal tempo del tango…Nell’animo sensibile dei siciliani come Mario Incudine si agita una pressante voglia di riscatto. Ecco allora che ‘talìa’ assume il valore metaforico di un invito ad aprire gli occhi non solo per guardare, ma per meravigliarsi, per stupirsi…”.
L’invito ad aprire gli occhi e a guardarsi intorno parte subito dal brano “Italia talìa” (“Italia talìa a sti figghi toi, ca sulu ammazzati addiventanu eroi”), si fa speranza in “Forsi chiovi” (‘nta l’arma sicca nasciunu li ciuri, talìu lu celu e intantu ancora chiovi”), in “Camina e curri” (“la vita è sciatu chi camina avanti”), “I passi di dumani” (“vivi sunu li passi di cu parti ppi strati novi”), e raggiunge poetica appassionata in “Duedinotte” (“si chiuvissiru pezzi di luna mi facissi un vestitu di re, p’arrubbariti tutti i pinzera e taliari dda intra cchi c’è”) e “Li culura” (“li culura ca hai intra l’occhi, l’haiu sunnatu di notti, ogni notti”, i colori che hai dentro gli occhi li ho sognati di notte, ogni notte), fino all’esaltante baccanale di “Notti di stranizza” che impone non solo alla vista, ma a tutti i sensi di rimanere vigili (“dammi una e centu mani, dammi ventu 'nte paroli, milli occhi ppi taliari, e sta vucca di vasari”).
Lo sguardo sul nostro Paese non può che trasformarsi anche in un atto di denuncia, come nel requiem di “Fiat voluntas Fiat”, in “Malaerba” o come nel ritornello di “Duminica matina” (inno dell’antiracket che recita “l’occhi nun sunu occhi si non ponnu taliari”); liriche che interpretano le urla di sfinimento degli immigrati africani rimandati indietro dalle spiagge siciliane in “Salina” (su un pozzu iri avanti un mi mannati arreri lassatimi muriri ammenzu ‘o mari), che diventano frasi di scherno in “Lassa e passa” (“lassa, passa... tira a campà”) scritta e cantata con l’attore Nino Frassica.
Da incorniciare la liricità e il pathos del racconto-ricordo di “Escusè muà pur mon franzè”, ritratto di un sopravvissuto al crollo della miniera di Marcinelle che il dolore e la vergogna di essere rimasto vivo rendono muto, costringendolo a scappare lasciando la sua innamorata belga (“mi nni scappai ppi lu gran scantu e la virgogna ca di triccentu, Diu mi salvau. Iu ti lassai, unica rosa intra 'u carbuni, unicu beni intra lu mali, unica cosa di ricurdari”).