L’acqua della Scighera è sempre e comunque gratuita. Non è minerale, è gasata o naturale, fredda o a temperatura ambiente, ma è sempre e solo l’acqua potabile del rubinetto. È buona e certificata, ha un costo irrisorio, non ci sono bottiglie di plastica da smaltire e non ci sono costi ambientali per il loro trasporto. L’impianto di microfiltrazione a carboni permette di eliminare dall’acqua il cloro, migliorandone il sapore, e i batteri con gli altri microrganismi, migliorandone l’igiene; il banco di ghiaccio, simile a quello della spina della birra, permette di raffreddarla a piacimento, e il gasatore permette di renderla frizzante.
La scelta dell’acqua del rubinetto ci è parsa subito come la più sensata e la più logica. Di per sé non necessita di grandi spiegazioni; quello che realmente ci sarebbe da chiedersi è perché tanta gente, in un paese come l’Italia, ricchissimo d’acqua, dotato di acquedotti e depuratori che la portano praticamente in tutte le case, continui a rifornirsi di quella imbottigliata, che costa al consumatore da trecento a mille volte di più, oltre al fastidio aggiuntivo di doverla andare a comprare e trasportare fino a casa. A tutto questo si aggiungono l’inquinamento prodotto per trasportarla, quasi sempre su gomma dalla sorgente al supermercato, e il costo ambientale ed economico per lo smaltimento di milioni di bottiglie di plastica.
Probabilmente molti, anche per via delle imponenti campagne pubblicitarie, pensano che l’acqua in bottiglia sia più pulita di quella del rubinetto. Ma ignorano che i controlli sulle acque potabili sono molto più severi di quelli previsti per le minerali. Per esempio, fino alla fine del 2003 la legge consentiva alle acque minerali di contenere sostanze dannose per la salute, come l’arsenico, dichiaratamente cancerogeno, il sodio, il cadmio o il manganese
in quantità superiori a quelle consentite per l’acqua potabile. In altri casi, come ad esempio per il fluoro o il velenosissimo alluminio, non è stabilito alcun limite per le acque minerali. Oltretutto il consumatore non può conoscere la composizione chimica dell’acqua in bottiglia, visto che per la legge le acque minerali non sono considerate potabili, ma terapeutiche, e questo esonera i produttori dall’obbligo di dichiarare sull’etichetta i quantitativi di sostanze potenzialmente dannose. Inoltre le bottiglie di minerale possono restare per mesi esposte sugli scaffali dei supermercati, o peggio esposte al sole, cosa che rende l’acqua stessa una minaccia per la salute.
Il giro d’affari dell’acqua in bottiglia è un gigantesco regalo degli enti pubblici alle imprese, visto che le tariffe fissate dalle Regioni per lo sfruttamento delle falde, ovviamente non sono inesauribili, sono ridicole rispetto agli introiti generati dalla commercializzazione dell’acqua in bottiglia. Le stesse Regioni spendono per lo smaltimento di circa cinque miliardi di bottiglie di plastica all’anno, molto più di quanto non incassino dai canoni delle concessioni. Ancheinquesto caso la spesa è pubblica ma il vantaggio privato: alle imprese una bottiglia di plastica costa un centesimo di euro, a fronte dei venticinque necessari per una di vetro.
Allargando il piano dell’analisi oltre i confini nazionali è ormai evidente come l’acqua sia una risorsa chiave per il futuro del pianeta, su cui non a caso già da tempo si sono concentrate le attenzioni delle grandi multinazionali. Dalle scelte quotidiane alla promozione di incontri e iniziative sul tema, è importante richiamare l’attenzione sul pericolo rappresentato dalla prospettiva della privatizzazione (o privazione) di un bene fondamentale per l’esistenza umana.
Con questo non si pretende di essere esaustivi sull’argomento ma di dare un contributo fattuale alla campagna di sensibilizzazione sull’acqua.
I dati sono tratti da: Giuseppe Altamore, Qualcuno vuol darcela a bere, Fratelli Frilli editori, 2003.